Cosa guardi quando cammini per strada?
La paura delle donne, le convinzioni degli uomini… e la scienza
Qualche tempo fa ho visto girare sui social un po’ di contenuti su uno studio condotto in diversi campus universitari statunitensi (da Robert Chaney, Alyssa Baer e Ida Tovar), che prova ad analizzare dove guardino uomini e donne quando passeggiano per i campus, in diversi momenti della giornata e in luoghi in cui fosse più e meno facile scappare.1
Lo studio utilizza uno strumento di visualizzazione dei dati, la heat map (cioè “mappa di calore”), che si presta bene a una comprensione superficiale piuttosto immediata dei dati rappresentati: in genere, prevede una codifica dei punti di maggior interesse per lo sguardo secondo un gradiente dal verde al rosso, dove il rosso indica maggior interesse, segnalati direttamente sulle immagini usate nello studio.

Alcune di queste immagini sono finite in contenuti divulgativi che provavano a spiegare i risultati dello studio - e sono state, più o meno correttamente, descritte come mappe di dove guardano le donne (a sinistra) e gli uomini (a destra) quando camminano, soprattutto di notte. Da queste immagini sembra abbastanza chiaro che, mentre gli uomini tendono a mantenere lo sguardo sulla strada che intendono percorrere, le donne tendono invece a guardare anche e soprattutto le zone buie ai lati della propria strada.
Tra i contenuti sul tema, mi sono imbattuta in un breve video di Giulia Lapertosa, che riporta a grandi linee questi risultati e intitola il suo video “La paura delle donne per strada è dimostrata dalla scienza”. Conclude dicendo che questi risultati dicono molto “riguardo ai livelli di sicurezza percepiti dalle donne per strada” e invitando le donne che la seguono a parlare nei commenti di quanto si sentano sicure quando camminano per strada e di che metodi utilizzino per sentirsi più sicure.
Per quanto io non direi mai, nel presentare una (singola) ricerca, che “la scienza” abbia dimostrato qualcosa (per me, in questo caso come in qualsiasi caso, si tratta di persone che fanno ricerca che testano delle ipotesi e riportano dei risultati, rivedibili alla luce di altre ricerche) - il video era, nella sua semplicità, abbastanza accurato nel riportare alcuni dei risultati dello studio, pur mantenendo evidente il focus di creare una discussione sul tema della sicurezza percepita più che sui dati in questione.
Tuttavia, nei commenti, diverse persone hanno intrapreso discussioni sul piano scientifico. In particolare, un utente commentava:
“Ma non è che: dato che l'uomo cacciava è le donne raccoglievano bacche, siamo abituati a focalizzare l'attenzione in punti diversi? Perché voi trovate i calzini e noi no? Sarà che per milioni di anni abbiamo fatto così?”
Questo commento mi ha divertita - e ho provato a rispondere, riportando che diversi studi suggeriscono un significativo ridimensionamento di questa convinzione sulla distinzione netta tra cacciatori e raccoglitrici2, ma soprattutto chiedendo che cosa questa considerazione avesse a che vedere con i risultati dello studio menzionato nel video. L’utente mi ha risposto evidenziando come nesso il fatto che la donna avrebbe (per una questione biologica ed evolutiva) una visuale periferica mentre l'uomo focalizzata in un punto soltanto - e che questa distinzione non sarebbe dovuta alla paura di essere aggrediti. “Anche perché”, aggiunge, “i dati parlano chiaro: sono più gli uomini a subire aggressioni.”
Come mi sono sentita di rispondere a quest’utente, quando ci sembra che i dati parlino chiaro è quasi sempre perché ci vediamo ciò che ci volevamo vedere noi - a costo di mischiare dati molto diversi fra loro senza accorgercene (in questo caso: i dati sul numero di aggressioni sono una cosa, i dati sulla paura di ricevere aggressioni sono un’altra - posto che non so a quali dati sulle aggressioni si riferisse).
L’utente non aveva però tutti i torti a ritenere che la visione (periferica o meno) potesse avere un ruolo in questi risultati: sia per com’era riportato lo studio, sia per la scelta di chi l’ha condotto di usare le mappe di calore, in effetti sembrava che si stesse parlando di dati raccolti dal vivo o quantomeno basati sullo sguardo e dove si posa.
In realtà, non è quello che è successo: questo studio è stato condotto su delle foto (dunque la visione non era in ogni caso periferica e la scelta dei punti da osservare era deliberata), e non prevedeva di tracciare lo sguardo. La richiesta che si faceva a chi ha partecipato (studenti di college) era di immaginare di camminare in solitudine nelle strade che mostravano al pc e di cliccare sui punti della foto che attraevano la loro attenzione. Si sono anche fatte una serie di domande sulla sicurezza percepita nel campus, quindi anche quella parte non era una speculazione del gruppo di ricerca, ma derivata dai metodi e analizzata statisticamente. Le foto erano di 4 diversi campus e presentavano diversi momenti della giornata e diversi livelli di “intrappolamento” percepibile (ovvero: erano luoghi da cui poteva sembrare più e meno facile scappare). Le mappe di calore diffuse da questi contenuti (e presenti anche all’inizio di questa newsletter) erano del sottotipo click map, e rappresentano il numero di click in determinati punti di una foto (o di una pagina web).
Una persona ha scritto che allora le affermazioni del video erano false - ma, a mio avviso, erano a loro modo vere sia le mie sia quelle del video: cambiava solo il focus della nostra lettura - e della nostra comunicazione.
Come legge uno studio una persona che fa ricerca? E come lo legge chi non la fa?
Non trovo strano che, in media (e anche in questo caso), chi magari frequenta sporadicamente la letteratura scientifica per cogliere spunti per parlare di alcuni temi si concentri nella comunicazione (oltre che probabilmente nella lettura) dei risultati per come li spiega chi scrive l’articolo scientifico, magari appoggiandosi sul loro modo di introdurre gli elementi chiave nell’introduzione, ponendo l’accento sulle possibili implicazioni - e che il mio approccio a quello studio (e alla sua “comunicazione”, anche se solo nello spazio dei commenti - e poi qui) sia stato andare a cercare i metodi, per poter interpretare autonomamente i risultati.
Esistono, in effetti, alcuni studi su come persone che fanno ricerca (a diversi stadi di carriera accademica) e no (per esempio ancora studenti in università) leggono diversamente gli articoli scientifici - che sembrano andare proprio in questa direzione.

Katharine Hubbard e Sonja Dunbar per esempio hanno condotto uno studio su 260 persone che studiavano o facevano ricerca in biologia in un’università inglese nel 2017 - alcuni dei risultati suggeriscono che in fasi diverse della carriera si valutino come più importanti sezioni diverse degli articoli scientifici - coerentemente con lo sviluppo di abilità crescenti nella lettura autonoma di alcune sezioni: chi non ha esperienza di ricerca valuta come meno importanti i metodi e i risultati statistici (oltre a trovarli, in media, più difficili da leggere) rispetto a chi ha un dottorato di ricerca e chi ha proseguito nella carriera accademica.3
Per chi scrive articoli scientifici, e soprattutto per chi insegna materie scientifiche all’università, questi dati costituiscono un invito a dare un supporto strutturato per la lettura della letteratura scientifica a persone con meno esperienza accademica.
Per chi li legge, possono servire da monito che purtroppo l’accesso alla letteratura scientifica non comporta, spesso, l’accesso alle informazioni e alla formazione necessaria per interpretarla al meglio - e, forse, che vale la pena privilegiare, per i propri contenuti, revisioni della letteratura che incorporino i risultati di più studi - anche quando, più che divulgazione scientifica, si propongono inviti alla riflessione (a cui, a maggior ragione, quasi mai può rispondere uno studio solo).
Senza citazioni 💌
Eccoci al punto in cui abbandono i riferimenti scientifici. In questo numero, lo userò per ragionare su cosa sia successo, davvero, in quella sezione commenti.
Dicevamo il mese scorso che la scienza viene spesso chiamata in causa per motivare posizioni politiche (ovviamente non “partitiche”, anche se può accadere, ma rivendicazioni sociali), poiché ci sembra che gli elementi scientifici che solleviamo conferiscano alla propria posizione una base percepita come meno attaccabile, più oggettiva, meno personale.
In questo mio trafiletto privo di indicazioni bibliografiche, mi sento di suggerire che abbia un suo senso che una donna che crea contenuti su questioni di genere e un uomo pronto a correggerla senza aver letto l’articolo di cui parla non sollevino, nelle loro argomentazioni, gli stessi riferimenti scientifici.
Nelle fasi successive del nostro botta e risposta nei commenti, a un certo punto (dopo aver portato spiegazioni, dati, riferimenti bibliografici, e il mio posizionamento) ho provato a defilarmi da quella che era ormai una discussione a più voci (maschili) contro la mia. Una di queste voci mi ha allora invitata a usare le mie competenze per ridimensionare “le mie colleghe” (che non so chi siano) e dare ragione a loro. Perché ci piace dire che la scienza è oggettiva, ma è sempre meglio se, dall’alto della sua oggettività, pende almeno un po’ dalla nostra parte.
Semini per menti curiose 🌱
Mi capita spesso di trovare cose interessanti o importanti in giro per l’internet ma non solo, di cui non so abbastanza per parlarne ma che vorrei condividere. Per non esaurire la memoria del telefono delle persone a me più vicine, ecco a te:
Come
ti segnalo un’intervista di Espérance Hakuzwimana per Torino e Cultura, in cui parla di editoria ma anche di identità, di classe, di rappresentazione e di accessibilità culturale. Trovi l’intervista su YouTube.Sempre copiando Alice (non è vero, ma è uscita prima di me e consigliarvi la sua newsletter è sempre una cosa buona) segnalo anche la campagna My voice, my choice: per un aborto sicuro e accessibile in Europa.
Di recente è uscito per Mimesis un volume dal titolo Teorie critiche della disabilità. Uno sguardo politico sulle non conformità fisiche, relazionali, sensoriali, cognitive curato da Enrico Valtellina. Ho seguito la presentazione in UniTo e credo sarà utile.
Dove mi trovi questo mese📍
In questa sezione raccolgo date, link e informazioni su incontri, contenuti, servizi ed eventi prossimi e recenti. Potrebbe essere più utile a me e a mia madre che a voi.
A dicembre mi troverai a Roma, a Foggia, e online. Sarò:
l’8 dicembre (dalle 15:30) a Roma e online (potrai recuperare il link sul mio canale broadcast), in dialogo con Carmen Ferrara per parlare di giustizia sociale, discorsiva ed epistemica - di giustizia, insomma, al di là delle sentenze dei giudici - con riferimento alle vittime di violenza di genere e alle persone neurodivergenti. L’incontro è una riformulazione della presentazione del mio libro che avrei dovuto fare a PLPL. Le motivazioni per la riformulazione le trovi in un mio video su IG, i dettagli su dove sarà e sugli altri eventi di Edizioni Tlon, insieme a un comunicato che è l’esito di un confronto lungo e complesso che abbiamo avuto nei giorni passati con tutte le persone che vedete nelle slide oltre a quelle che lavorano dietro le quinte ai nostri libri, le trovi in un carosello sul loro IG;
il 13 dicembre (dalle 14.30) terrò una lecture sul paradigma della neurodiversità con un focus sul neurosviluppo all’interno del TFA sostegno dell’Università di Foggia (sarò lì dalla sera prima, se vogliamo incontrarci!);
il 17 dicembre (dalle 20:30) si riunirà per l’ultima volta del 2024 la DiverGente, per parlare di stimming, ovvero di auto-regolazione e auto-stimolazione, tra comportamenti permessi e vietati nella nostra società - ti puoi iscrivere sul mio sito e recuperare i due incontri precedenti.
Se non ci rivedremo in nessuna di queste date, ti auguro già delle buone feste, sperando tu abbia un po’ di tempo per riposare, e ci rivedremo qui, il 2 gennaio 2025.
Se hai opinioni, perplessità, riflessioni, obiezioni o feedback su quello che ho scritto, mi raccomando: commenta, rispondi, fammelo sapere!
A presto,
| @narractionAllo studio hanno partecipato solo 71 persone non binarie, troppo poche per poter fare analisi statisticamente sensate, in confronto alle 276 donne e ai 217 uomini del campione. Per chi avesse curiosità, lo studio di Chaney, Baer, & Tovar (2024) è Gender-Based Heat Map Images of Campus Walking Settings: A Reflection of Lived Experience. Pubblicato su Violence and gender, 11(1), 35–42.
La questione cacciatori-raccoglitrici è spinosa e certamente ancora aperta, ma per uscire da quest’idea di separazione assoluta tra i compiti sulla base del sesso consiglio di dare un’occhiata allo studio di Ocobock e Lacy, Woman the hunter: The archaeological evidence (2023) - di cui si può trovare un sunto ragionevole su La Repubblica - e del gruppo di Anderson, The Myth of Man the Hunter: Women’s contribution to the hunt across ethnographic contexts (2024).
A chi interessasse segnalo che allo studio quantitativo che cito qui, pubblicato nel 2017, è poi seguito uno studio qualitativo, pubblicato nel 2022, che suggerisce riflessioni simili.